“Kill Bill è il tipo di film che vanno a vedere al cinema i personaggi di Pulp Fiction” – dichiara Tarantino. E inventa un mondo immaginario all’interno, paradossalmente, di una realtà che è essa stessa rappresentazione: dentro un film. In 331 metri al secondo (Ed. HarperCollins, Agosto 2018), terzo romanzo di Rosanna Rubino (Tony Tormenta, Il sesto giorno), assistiamo a qualcosa di molto simile: la creazione di un universo in cui verosimiglianza e fumetto, ambientazioni dalla precisa collocazione spazio-temporale e istanti dilatati nell’arco di una vita, si fondono in nitide sequenze a costruire un’iperrealtá onirica, viscerale e inconscia come i sogni, metafisica, dove ogni dettaglio, ogni raggio di luce, che arrivi dal sole, dal neon di un ospedale, o da un treno che attraversa i binari della metropolitana, ci proietta nell’universo interiore del protagonista, Chon.
L’intero romanzo si muove sul doppio piano di una realtà visionaria (addirittura immaginaria?) contrapposta alla soggettività di Chon (o da lui stesso prodotta?). Come supporre l’esistenza se non un istante infinito, un tempo interiore immutato che, con la propria percezione, “crea” la realtà?
Attenzione, non abbiamo di fronte un trattato filosofico, ma un sapiente miscuglio di generi che vanno dal noir, al poliziesco, al romanzo di formazione, dove una scrittura martellante e affilata, tratteggia, chirurgica, quasi a istantanee, trama e personaggi dal carattere e psicologia ben definiti, in un crescendo di eventi intrisi di profonda tensione narrativa.
Chon si trova catapultato da un tragico evento in un mondo ipersonico, e vive, in perenne distonia con la realtà (che lo circonda?), che pure risuona vivida e martellante nella sua testa a causa dell’iperacusia di cui soffre, in un luogo di piccole vicende personali e di grandi storie collettive.
Milano è una Gotham City velata di blu, una Tokyo affamata, griffata e corrotta, il bagliore rarefatto nella penombra di un ristorante alla moda e il chiarore livido di un’alba colorata dalle fiamme; bocche masticanti di un’umanità ferina colta nella sua viltà quotidiana; un’aritmia sommessa e stridente che conduce a un inesorabile boato.
A trovare un senso in questa metropoli dallo scheletro d’acciaio e muscoli filigranati, dove la trasformazione dell’architettura è fusa e inscindibile con le speculazioni della malavita organizzata (con taglio orientale), Chon porta avanti il suo folle progetto, l’unico che possa, in un mondo capovolto, riparare a quella realtà negata che è per lui l’origine del tempo: infanzia, emozione, calore. Affetto.
Il testo, con un’empatia fortissima verso i personaggi, sospeso ogni giudizio morale sugli stessi, fa scaturire la loro profonda umanità, delineandosi, in definitiva, come un atto d’amore; verso una città (una vita?) perennemente agognata quanto più, per motivi impossibili da conoscere, sottratta.
Un cielo mutevole, ora accanito, più spesso indifferente, assente se invocato a gridare una risposta, spia le vicende di chi rappresenta il bene ed è perduto e chi, venendo da un altro mondo, vi farà ritorno trovando la pace
Davanti al silenzio che sottende il rumore, specchiato nel vetro e nell’acciaio come nuove maschere di inumana distanza, a Chon non resta che l’azione, epigono di un’epica minore ma non doma: un solo, rigoroso, calcolato, premeditato gesto, la cui origine risale a un remoto passato, a spezzare il corso degli eventi e dare inizio a un tempo nuovo, dove, volgendo lo sguardo verso il mare, è ancora possibile incontrare la bellezza. Forse persino amare. Amare profondamente, a costo dell’anima; anche chi, dilemma di ogni amante di fronte al suo bene, potrebbe, in fondo, non esistere che per noi.
Diego Galdi