Rosanna Rubino sa scrivere. Il suo secondo romanzo, Il sesto giorno, edito da Fazi nella collana Darkside, un racconto che si sostanzia di pochi fatti e grigie descrizioni, è un opera che vuole essere non banale, forse innovativa nei dettagli e nelle scelte stilistiche (non tanto linguistiche), pregna di significati sottaciuti e drammi divenuti ormai prassi, pane quotidiano da smerciare tra i troppo carichi, stanchi scaffali piegati delle librerie del centro città o di periferia.
Ambientato a Milano, la solita, grigia Milano, il romanzo della Rubino sembra la cronaca annunciata di una fine che tarda a compiersi; una cronaca della crisi attuale, l’onnipresente e onnicomprensiva crisi del mercato, dei mercati, scompaginata da un forte, dopo i primi secondi probabilmente banale, cliché romanzesco, quasi fantastico: il protagonista Ronnie Rosso.
Un personaggio ricchissimo, solo presente, o meglio, senza passato, un outsider meticcio (di origini nigeriane) Dio di un impero in espansione. Non solo! Scapolo, intelligente, di bell’aspetto e solo. Molto solo. Nulla di nuovo, ovviamente, un personaggio già letto e che, pur provandoci, resta superficiale sino alla fine dei sei giorni cui si riferisce il titolo. Ciò che però la Rubino ci racconta meglio è il contesto, l’ambiente in cui si muove il nostro uomo, che suda di contemporaneo, che sfrigola di stanco capitalismo occidentale.
Ronnie non è circondato da uomini, da calda Umanità, ma solo da fredde funzioni, da soggetti-ruoli che orbitano attorno alla sua persona: un patetico Avvocato (nobilitato quantomeno a persona dall’uso della maiuscola), un Medico unicamente dedito al lavoro e alla ricerca dell’immortalità, Voce, ovvero la Segretaria che per decenza (?) non è così indicata e infine Ragazzo, il fortunato ragazzo a cui Ronnie decide di raccontare la sua storia, cioè il suo passato e che funge da motore dell’azione.
L’intreccio è volutamente inconsistente, il tempo del racconto spalmato lungo l’arco di sei giorni, una linea cronologica facile da gestire anche con la sovrapposizione dei diversi flashback, a loro volta progressivi e mai disarticolati, sconnessi come sono molto, o potrebbero essere quasi sempre, i ricordi, aridamente esplicativi nella misura in cui servono l’intreccio. Il ritmo, i tempi della storia, risultano essere tutto sommato piuttosto serrati, non si può certo negare la curiosità che suscita l’atmosfera, la campana di vetro siderale in cui si muovono le poche funzioni e il nostro Ronnie.
Dunque, Rosanna Rubino sa scrivere. Qualche pagina è infatti letteralmente illuminata da alcune riflessioni, da certi pensieri formulati con gusto, quasi perle che si inseriscono perfettamente nella trama varia delle parole. Purtroppo questi momenti sono offuscati da scelte, spesso proprio riguardanti quel pallido intreccio, che stonano e banalizzano il tono del racconto.
Sembra quasi che la Rubino si sia prefissata, imposta quasi, un compito, uno di quegli esercizi da lasciare da fare a casa per le vacanze a degli studenti liceali: “Scrivi un racconto di ambientazione contemporanea che parli di crisi, di immigrazione e magari di un filo di speranza! Mi raccomando però: il tono deve essere cupo.” Il compito è stato eseguito egregiamente, anzi meglio, si merita pure un dieci!
Ma resta un esercizio di scrittura, una prova di cui sono ancora troppo evidenti i segni del taccuino dove sono stati tracciati gli appunti.
Salvatore Ciaccio